Con la legge n. 33 del 9 aprile 2009 (di conversione del D.L. n. 5 del 10 febbraio 2009) è stato introdotto nel nostro ordinamento il contratto di rete. Questa nuova forma di associazionismo imprenditoriale su base contrattuale ha da subito attirato molta attenzione da parte degli operatori del settore e della dottrina, interesse che ha spinto il Legislatore ad intervenire più volte per apportare modifiche alla disciplina.

L’articolo 3, comma 4-ter, della suddetta legge recita: “Con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa”.
Caratteristica fondamentale di tale nuovo tipo contrattuale è dunque la presenza necessaria di uno scopo comune tra i vari membri della rete, finalizzato alla crescita della capacità innovativa e/o alla crescita della competitività
La normativa precisa che il contratto di rete può essere stipulato da “più imprenditori”, indipendentemente dalla loro natura, purché ricorrano i requisiti sostanziali dettati dall’articolo 2082 c.c. e quelli formali, cioè sostanzialmente l’iscrizione nel Registro delle Imprese. Pertanto, sono ammissibili anche contratti di rete conclusi fra società senza scopo di lucro, ovvero tra società con e senza scopo di lucro, non ostando la legge a queste ipotesi. Maggiormente discussa è l’ipotesi del contratto di rete che preveda come parti soggetti non iscritti al Registro delle Imprese, come ad esempio associazioni e fondazioni. Sul punto è di recente intervenuto un parere del Ministero dello Sviluppo Economico che parrebbe negare quest’ipotesi, le cui conclusioni sembrano porsi in contrasto con la giurisprudenza e la dottrina dominante nonché con la ratio della normativa comunitaria.
Per ciò che concerne l’oggetto del contratto, la legge fissa l’obbligo di predisporre un programma comune sulla cui base potranno poi essere svolte tre tipologie di attività:
- Collaborazione tra le parti in ambiti attinenti l’esercizio delle proprie imprese;
- Scambio tra le parti d’informazioni o di prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica e tecnologica;
- Esercizio in comune tra le parti di una o più attività rientranti nell’oggetto delle rispettive imprese.
Come si evince, l’ambito di operatività è estremamente ampio. Ad ogni modo, l’attività assorbente risulta essere quella della “collaborazione”, per cui rileverà la volontà di lavorare insieme in modo non occasionale per il perseguimento di un obiettivo comune, pur rimanendo ferma l’indipendenza delle imprese partecipanti.
Le parti possono predisporre un fondo patrimoniale ed un organo comune incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l’esecuzione del contratto o singole fasi o parti dello stesso.
Una novità interessante, introdotta nel 2013 dal Legislatore con la legge n. 99, è rappresentata dalla possibilità di predisporre il distacco di personale tra imprese che abbiano stipulato un contratto di rete. Tale istituto, in deroga alla disciplina codicistica ex art. 2094 c.c., prevede la tripartizione del rapporto di lavoro tra il datore di lavoro, il prestatore di lavoro ed un utilizzatore terzo. Normalmente, affinché l’istituto sia legittimamente impiegato, cioè non si trasformi in forme di somministrazione o di interposizione fittizia di manodopera illecite od irregolari, devono essere rispettati i requisiti della temporaneità, dell’interesse del datore di lavoro ed infine della responsabilità dello stesso, che resta unico titolare del rapporto lavorativo. Nel caso di contratto di rete, la sussistenza dell’ultimo requisito si presume in quanto esso è per sua natura “diffuso”, con la conseguenza di permettere una più facile circolazione dei lavoratori tra imprese collegate. Ciò comporta la titolarità del rapporto di lavoro in capo a due soggetti diversi, che avranno entrambi la possibilità di esercitare il potere di direttiva e di controllo. Viene così introdotto anche nel nostro ordinamento il concetto di “codatorialità”.
A seguito della decisione della Commissione Europea del 26 gennaio 2011 che ha riconosciuto la non contrarietà delle agevolazioni fiscali previste a favore del contratto di rete all’art. 108 TFUE, è oggi efficace un regime di sospensione d’imposta (operante solo ai fini delle imposte sui redditi) per gli utili di esercizio che le parti abbiano accantonato in apposita riserva e destinato al fondo patrimoniale per la realizzazione degli investimenti previsti dal programma di rete.
Il contratto di rete si pone come alternativa rispetto all’associazione temporanea di imprese, avendo disciplina e finalità diverse. Come ha affermato il TAR della Calabria infatti, “I raggruppamenti temporanei tra imprese sono previsti dalla legge ed hanno ragion d’essere solo nel contesto delle gare e dei rapporti con la stazione appaltante, costituendo essi una modalità agevolativa di partecipazione alle gare bandite dalla P.A. che non può trovare applicazione oltre i casi in cui è prevista, senza che per questo possa ritenersi violato il principio comunitario di tutela della concorrenza” (T.A.R. Reggio Calabria sez. I,, 10 dicembre 2009, n. 1197). Oltre a tale finalità funzionale, il contratto di rete si distingue rispetto all’ATI perché ha natura più strutturata, non episodica, avuto riguardo anche al fatto che uno dei suoi scopi è quello di incrementare la competitività delle imprese aderenti, obiettivo non facilmente raggiungibile con una collaborazione temporanea.