Avv. Simona Bosisio – Avv. Silvia D’Angelo

In questi giorni ci vengono ripetutamente chiesti pareri in merito alle conseguenze a cui vanno incontro i lavoratori che rifiutino di sottoporsi al vaccino anti-Covid.

Sul punto si sono espressi autorevoli giuristi con opinioni contrastanti e proprio da tale contrasto si evince la difficoltà di individuare una soluzione univoca.

Proveremo dunque nella presente sede ad illustrare le diverse strade percorribili per la soluzione del problema, premettendo che ogni indicazione fornita deve necessariamente essere letta ed adeguata alle caratteristiche ed esigenze di ogni singola realtà.

L’art. 32 della Costituzione prevede che nessuno possa essere obbligato a sottoporsi ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Allo stato attuale non esiste una norma giuridica che obblighi alcuno a sottoporsi al vaccino anti Covid. Ne deriva dunque che le persone possono legittimamente rifiutarsi di essere vaccinate.

È indubbio che tale libera scelta costituisca un problema di non poco conto nel momento in cui è espressa dal personale sanitario e socio sanitario operante in una realtà complessa in cui entrano in gioco non solo gli interessi dei singoli lavoratori, ma anche quelli dei colleghi, nonché delle persone affidate alle cure di detto personale.

Ancor prima di addentrarci nelle conseguenze del rifiuto, occorre soffermarsi sulla classificazione del virus di cui si discute: la Direttiva UE 739/20 ha inserito la Sars-CoV-2 nell’elenco degli agenti biologici che è noto possono causare malattie infettive nell’uomo; propriamente il provvedimento inserisce il virus Sars-Cov-2 nel gruppo di rischio 3 degli agenti biologici.  Tale direttiva, unitamente alle disposizioni del DL 149/20 ha determinato la riclassificazione e la modifica dei due allegati XLIV[1] e XLV al d. lgs. 81/08 in materia di rischio biologico, inserendo il Covid 19 quale rischio Gruppo 3 (art. 268 TU sicurezza)[2].

Nel momento in cui alla luce del DVR – integrato successivamente al dilagare del virus – il Covid-19 costituisce un rischio specifico della mansione svolta, il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 271 TUSL, deve adottare le misure protettive e preventive di cui al titolo X, adattandole alle specifiche attività lavorative.

In particolare, ai sensi dell’art. 279 del TUSL, il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente [che assume quindi un “Ruolo Principe”], deve mettere a disposizione vaccini efficaci per quei lavoratori che non siano già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione.

Ma non solo, ai sensi della lettera b) co. 2 del medesimo articolo – alternativamente alla vaccinazione di cui al punto a) – il datore deve disporre l’allontanamento temporaneo, a norma dell’art. 42, del lavoratore in merito al quale si richiedono misure speciali di protezione. L’art. 42 prevede che il datore di lavoro, nell’adottare le misure indicate dal MC, ove vi sia una valutazione di inidoneità, adibisce il lavoratore OVE POSSIBILE a mansioni equivalenti, o in difetto a mansioni inferiori.

Sul punto è bene ricordare che al Medico Competente – coerentemente con i contenuti del piano di sorveglianza sanitaria, la valutazione del rischio specifico e le correlate misure di prevenzione e protezione –  spetta l’onere di dichiarare idoneo il lavoratore a seguito di visita medica preventiva intesa a contrastare l’assenza di controindicazioni alla mansione specifica cui lo stesso è destinato.

E ancora, sulla scorta di quanto prevede l’art. 25 (obblighi del Medico Competente)  del TUSL alla lettera b), il MC “ …….programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41 attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati”  anche coordinandosi con le autorità sanitarie competenti nella sua funzione di raccordo fra il sistema sanitario nazionale /locale e il sistema aziendale.

Le citate disposizioni del TU sicurezza devono essere lette in combinato disposto con l’art. 2087 del cod. civ, che così dispone: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”

Al fine di comprendere la portata di suddetta disposizione, ritenuta dalla dottrina quale norma di chiusura del sistema di sicurezza sul lavoro, si ritiene importante chiarirne il contenuto.

Per particolarità del lavoro si intendono i rischi e le nocività specifiche dell’attività lavorativa che viene svolta.

L’esperienza è ciò che consente di prevedere e valutare i rischi in base ad eventi già verificati e pericoli valutati in precedenza.

La tecnica impone di tenersi aggiornati sui sistemi di sicurezza messi a disposizione dal progresso scientifico.
L’imprenditore è quindi obbligato a porre in essere, oltre alle misure di sicurezza previste da norme di prevenzione, anche quelle dette «innominate», ossia quelle che, «ancorché non espressamente imposte dalla legge o da altra fonte equiparata, siano suggerite da conoscenze sperimentali o tecniche ovvero dagli standard di sicurezza normalmente osservati» (Cass. civ., sez. lav., 30 giugno 2016, n. 13465).

Secondo le indicazioni  fornite dal Ministero della Salute nell’ambito del protocollo relativo al piano vaccinale, la vaccinazione, in particolare del personale sanitario e socio sanitario, è indicata come misura per ridurre il rischio di contrazione del virus.

Appare dunque lecito ritenere che, nell’ottica del citato art. 2087 cod. civ., allo stato attuale della conoscenza, il vaccino rappresenti un mezzo di tutela del lavoratore dal quale non sia possibile prescindere.

Alla luce delle citate disposizioni appare di tutta evidenza che nelle strutture sanitarie e socio-sanitarie il rifiuto del lavoratore che svolge attività a contatto con gli utenti introduce una criticità di non poco conto.

Il datore di lavoro si trova infatti davanti alla necessità di comprendere se prevalga il diritto di scelta del singolo e se sia dunque obbligato a garantirgli la continuità del rapporto di lavoro, oppure se, ferma la libertà di scelta, si ponga in capo alla struttura l’obbligo di allontanarlo dagli ospiti e dai colleghi che hanno scelto di sottoporsi al vaccino.

In tale dilemma non si può dimenticare anche il lato organizzativo delle singole realtà che, qualora fossero tenute ad allontanare un numero significativo di lavoratori reticenti, potrebbero trovarsi a dover gestire un’importante carenza di personale.

Come anticipato, una risposta certa in questo momento storico non c’è.

Ad avviso di chi scrive, trattandosi di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, non si può prescindere da un coinvolgimento in primis del Medico Competente che, a mente dell’art. 279 del TUSL, valutato il rischio specifico delle mansioni di cui si discute, introduce il vaccino quale strumento di prevenzione e protezione dal Covid-19. A sostegno dell’attività del Medico Competente ben potranno essere coinvolti i componenti del Comitato Covid, (tra cui Responsabile Covid), l’RSPP e l’RLS, ognuno apportando il proprio contributo a maggior tutela della sicurezza in questo momento pandemico.

Nel momento in cui il Piano di Sorveglianza sanitaria introduce il vaccino quale strumento di massima tutela nell’attuale momento storico, è verosimile pensare che il lavoratore che si rifiuti di sottoporvisi sarà inviato al Medico Competente per una valutazione della sua idoneità allo svolgimento della mansione specifica.

Si ritiene doveroso ricordare e sottolineare il ruolo fondamentale del Medico Competente che, come ricordato anche nel Protocollo 24 aprile 2020, collaborando con il datore e con i RLS può “integrare e proporre tutte le misure di regolamentazione legate al Covid-19”, nonché applicare le “indicazioni delle Autorità Sanitarie”.

Proprio in relazione a tale ruolo ed in stretta connessione con l’integrazione dei protocolli di sicurezza che contemplano la messa a disposizione del vaccino, il MC si ritiene possa disporre una diversa calendarizzazione delle visite di idoneità –  in particolare dei lavoratori renitenti – in ragione del momento emergenziale contingente. Quanto sopra in linea con quanto precisato dal Ministero della Salute con circolare del 29/04/20.

Appare di tutta evidenza che nel momento in cui questi dovesse emettere un giudizio di inidoneità anche temporanea alla mansione, il datore di lavoro dovrà attuare le misure indicate e dunque non potrà continuare ad adibire l’interessato alla mansione per la quale è stato valutato.

Esclusa la possibilità di intimare un licenziamento, sul quale si tornerà infra, il datore dovrà verificare la disponibilità di una mansione alternativa a cui adibire il lavoratore e, nel caso di oggettiva impossibilità di procedere in tal senso, potrà sospenderlo per tutto il tempo in cui perdura l’inidoneità[3].

In assenza del rapporto sinallagmatico (prestazione/retribuzione), il datore può valutare di sospendere anche l’erogazione della retribuzione. L’inidoneità alla mansione deriva infatti dal suo rifiuto di adottare una misura a sua tutela, dunque si può legittimamente tentare di sostenere che l’onere economico derivante da tale scelta non possa gravare sul datore di lavoro.

L’utilizzo del termine “tentare”, e più in generale del condizionale ,  è d’obbligo in quanto, come detto in apertura del presente parere, non vi sono ad oggi indicazioni specifiche o soluzioni preconfezionate, pertanto non si può escludere che il lavoratore possa agire in giudizio per ottenere il pagamento della retribuzione e dunque la decisione verrebbe inevitabilmente rimessa a persona terza.

Una soluzione percorribile per scongiurare un immediato contenzioso, potrebbe essere quella di erogare la retribuzione con riserva di ripetizione, o, qualora il numero dei lavoratori fosse importante, si potrebbe valutare l’accesso agli ammortizzatori sociali.

Per quel che riguarda il licenziamento si evidenzia che, oltre a rappresentare un rischio in termini di contestazione da parte dei lavoratori, non da ultimo in ragione della probabile temporaneità del giudizio di idoneità, occorre ricordare che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha ricondotto il licenziamento per inidoneità alla mansione nel novero dei licenziamenti per motivi organizzativi ed economici, con la conseguenza dell’operatività del divieto di recesso fino al 31 marzo p.v.

Qualora si verta in tema di lavoratori fragili con eventuali controindicazioni alla vaccinazione, che siano dunque giudicati inidonei alla mansione, si ricorda che la legge di bilancio 2020 (co. 481-484) ha esteso l’equiparazione del periodo di assenza dal lavoro al ricovero ospedaliero. Anche in questo caso il giudizio del Medico Competente è determinante ai fini dell’azione di cui sopra; in ogni caso  , a parere di chi scrive, questi dovrà confrontarsi con il Medico di Medicina Generale del lavoratore per le certificazioni del caso in un contesto di valutazione clinico-anamnestica completa.

Dalla breve disamina sopra esposta ancora una volta viene in evidenza il ruolo del Medico Competente che non potrà esimersi dall’applicazione dell’art. 279 del d. lgs. 81/08 e quindi, considerato il rischio specifico di esposizione al Covid-19, non potrà esimersi dal valutare l’idoneità del lavoratore che si rifiuti di effettuare il vaccino.

Pur nel rispetto della scelta del lavoratore che opponga rifiuto, non si può ritenere che, in caso di infortunio da Covid-19 occorso all’operatore renitente, il datore possa ritenersi liberato da qualsiasi responsabilità per il solo fatto di aver offerto la possibilità del vaccino. Sul punto basti ricordare che secondo costante giurisprudenza, il datore di lavoro è responsabile dei danni alla salute anche quando il lavoratore con il proprio comportamento abbia concorso alla causazione del danno.

Va ricordato che “grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi di un evento dannoso”[4]. Se è vero da un lato  che, per effetto dell’art. 2087 del c.c. e degli obblighi già sopra richiamati, il datore è tenuto a preservare la salute dei lavoratori, è pur vero che in assenza di obbligo vaccinale Covid-19, lo stesso, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per impedire l’evento dannoso  e di aver dunque adottato un comportamento comprensivo di tutte le misure e di tutti gli interventi concretamente necessari ed attuabili per prevenire gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Il Datore di lavoro, conformandosi quindi agli aggiornamenti scientifici sugli sviluppi della tecnica di controllo e di prevenzione del rischio Covid-19 che oggi si evolvono e susseguono costantemente per effetto anche della modificazione del processo clinico, dell’ambiente e della risposta farmaceutica, deve valutare tutti i possibili mezzi disponibili – anche alternativi/sostitutivi alla vaccinazione – per tutelare il lavoratore dissenziente al processo vaccinale. Ciò in considerazione di una lettura combinata dell’art. 2087 c.c. e l’art. 32 della Costituzione.

Ancora, per una corretta valutazione del tema qui affrontato e soprattutto per una valutazione della responsabilità, non si può dimenticare che le strutture che erogano servizi sanitari e socio sanitari hanno un dovere di tutela anche nei confronti degli utenti fragili accolti ed in tale senso si è espresso anche il Ministero della Salute nell’ambito del piano strategico per la vaccinazione pubblicato in data 12 dic. 2020.

In particolare, in merito ai residenti e al personale dei presidi residenziali per anziani si legge così: “Un’elevata percentuale di residenze sanitarie assistenziali (RSA) è stata gravemente colpita dal COVID-19. I residenti di tali strutture sono ad alto rischio di malattia grave a causa dell’età avanzata, la presenza di molteplici comorbilità e la necessità di assistenza per alimentarsi e per le altre attività quotidiane. Pertanto, sia la popolazione istituzionalizzata, che il personale dei presidi residenziali devono essere considerati ad elevata priorità per la vaccinazione”.

Da tale statuizione si evince chiaramente che le RSA hanno dunque un duplice obbligo di tutela da cui non si può prescindere per una corretta valutazione del diniego dell’operatore, il quale, non vaccinato, potrebbe essere un veicolo di trasmissione del virus nei confronti non solo degli ospiti eventualmente non vaccinati, ma anche di quelli vaccinati in considerazione di quel margine di scopertura ad oggi dichiarato dalle case farmaceutiche.

In tal caso, anche in assenza di un giudizio di inidoneità alla mansione, ma in ottemperanza ad un più ampio obbligo di tutela dell’intera popolazione ospitata,  il datore potrebbe decidere di allontanare il dipendente dal contatto diretto con l’utenza. In tale ipotesi la sua prestazione non risulterebbe più proficuamente utilizzabile nel contesto originario di assunzione ed il datore avrebbe l’obbligo di verificare la sussistenza di mansioni alternative a cui adibire l’operatore; laddove la  verifica desse esito negativo, potrebbe  valutare la sospensione temporanea dal lavoro per impossibilità sopravvenuta di utilizzo di una prestazione  non coerente con le linee di contenimento del virus adottate dalla struttura. E’ infatti verosimile pensare che la vaccinazione, pur non obbligatoria di legge, sia inserita nei protocolli di sicurezza della struttura.

In assenza di sinallagma contrattuale, pur con i rischi poc’anzi già analizzati, l’ente potrà valutare la sospensione dalla retribuzione.

Al termine della presente disamina appare di tutta evidenza che, in assenza di un intervento del legislatore, ogni singolo Ente dovrà effettuare una valutazione della propria realtà soppesando i rischi derivanti dalla scelta di mantenere in servizio un operatore non vaccinato, così come quelli derivanti dalla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.

Fermo – in capo alle strutture – l’obbligo di continuare a fornire i DPI già in uso, di applicare ed integrare i protocolli adottati, di sottoporre a screening periodico gli operatori, si suggerisce in ogni caso  di costituire un dossier specifico utile a documentare tutte le azioni/attività poste in essere dal Datore di Lavoro, compresi verbali di riunioni, materiale informativo distribuito, campagna di sensibilizzazione, relazioni del M.C., revisioni del rischio specifico, e tutto quanto attinente nonché utile a dimostrare l’operosità del DDL e del gruppo di lavoro globalmente inteso.

Nel restare a disposizione, è gradita l’occasione di porgere i migliori saluti.


[1] ALLEGATO XLIV
Elenco esemplificativo di attività lavorative che possono comportare la presenza di agenti biologici

1. Attività in industrie alimentari.
2. Attività nell’agricoltura.
3. Attività nelle quali vi è contatto con gli animali e/o con prodotti di origine animale.
4. Attività nei servizi sanitari, comprese le unità di isolamento e post mortem.
5. Attività nei laboratori clinici, veterinari e diagnostici, esclusi i laboratori di diagnosi microbiologica.
6. Attività impianti di smaltimento rifiuti e di raccolta di rifiuti speciali potenzialmente infetti.
7. Attività negli impianti per la depurazione delle acque di scarico.

[2] Gruppo 3: Agente che può causare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori. L’agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche.

[3] Articolo 42 – Provvedimenti in caso di inidoneità alla mansione specifica

1. Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.

2. Comma abrogato dall’art. 27 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106

[4] Cass. Civile sez. Lavoro 20.11.2020 n. 26512