Fonte: Articolo pubblicato su Vita

di Stefano Arduini

Parla il presidente di Uneba Lombardia Luca Degani, che nei giorni scorsi aveva sollevato il caso delle delibera lombarda sull’invio di pazienti Covid nelle residenze per anziani: “Se valutiamo che la pandemia mette a rischio la popolazione più anziana, bisogna che attrezziamo adeguatamente e ci preoccupiamo in primis dei luoghi vivono queste persone, a prescindere da dove si trovino, negli ospedali, nelle Rsa o a casa”

Luca Degani da presidente della sezione lombarda di Uneba (l’organizzazione di categoria del settore sociosanitario, assistenziale ed educativo che associa oltre 900 reltà quase tutti non profit e di ispirazione cristiana) aveva espresso fin da subito alcuni dubbi sulla ormai celebre delibera della giunta Lombarda – la numero XI/2906, 8 marzo 2020. Delibera che chiedeva alle Ats, le aziende territoriali della sanità, di individuare nelle case di riposo dedicate agli anziani strutture autonome per assistere pazienti Covid 19 a bassa intensità. Un j’accuse che alzato un polverone che sta tuttora investendo sia la Giunta lombarda che tutto il mondo delle residenze per anziani con particolare attenzione sul Pio Albergo Trivulzio. «Il tema oggi», spiega a Vita, «non è però quello di individuare il capro espiatorio, ma di capire dove il sistema ha probabilmente avuto i maggiori limiti e come fare meglio». Ovvero usciamo dalla logica del giudizio anticipato, ospedale contro territorio, politica contro tecnici e proviamo, invece, a costruire un sistema più saldo a partire da un punto: «Va spostata l’attenzione dalla struttura alla persona».

Iniziamo dall’analisi di cosa non ha funzionato, partendo dalla delibera in cui si parlava di pazienti covid a bassa intensità?
Dopo un piccolo sbandamento iniziale hanno chiarito: i covid positivi dovevano andare in un reparto autonomo, mentre i posti letto liberi sarebbero stati eventualmente destinati ai covid negativi. Ma questo è il meno, il tema vero è che quella impostazione di azioni ordinamentali evoca una forma mentis che pensa che l’ospedale sia il centro e che tutte le altre strutture territoriali gli siano ancellari. E questo vale anche per le Rsa, che diventano luoghi di supporto all’ospedale dove si cura il Covid.

Cosa non funziona in questo ragionamento?
Se in una Rsa arriva un Covid, la cosa che mi devo chiedere è che effetto ha sulla struttura. Fin da subito sia l’istituto superiore della sanità che l’Oms hanno specificato che il rischio di letalità sale al crescere dell’età e del numero delle patologie croniche delle quali la persona infetta sia portatrice. Se sai che nelle Rsa sono ricoverati esattamente questi soggetti, non chiedere a queste di mettersi al servizio degli ospedali, semmai fai esattamente il contrario.

Ovvero?
In altri termini in un momento emergenziale comprendo non aver ritenuto di poter utilizzare facilmente gli ospedali per prendersi carico della popolazione anziana presente in rsa che non ha potuto quindi accedere ai servizi per ottenere immediati tamponi e ricoveri ospedalieri laddove manifestasse problemi di salute covid correlati. Questo perché per la prima volta ci siamo trovati in una situazione di forte stress del sistema ospedaliero in particolare delle terapie intensive. Si è determinata una situazione che ha costretto i sanitari a decidere di dare la precedenza, per quanto concerne l’accesso alla terapia intensiva, alla fascia di popolazione più giovane e con maggior possibilità di sopravvivenza. Su tali scelte personalmente ritengo che si possa non concordare ma ne comprendo la logica sottesa. Quando però si decide di utilizzare le rsa per deflazionare il sistema ospedaliero da un eccesso di ricoveri ritengo che si debba contemporaneamente pensare a potenziare l’offerta di prestazioni sanitarie per acuti delle rsa stesse. Quindi insieme ai malati, sottolineo necessariamente covid negativi previamente tamponati e verificati, si dovrebbero mandare specialisti infettivologi e specialisti polmonari in Rsa. Tanto più si dovrebbero prima effettuare i tamponi a tutti gli ospiti e lavoratori delle rsa per verificare lo stato di sicurezza di queste realtà, anche a tutela dei soggetti potenzialmente immunodepressi dei quali si chiede il trasferimento. Oltre che per la tutela dei lavoratori e per l’effettiva possibilità di una presa in carico degli ospiti con le opportune azioni di ridefinizione dei posti nei reparti per minimizzare il rischio infettivo. In altre parole “ospedalizzare” l’Rsa per il tempo necessario, fornendo un supporto adeguato alla eccezionalità dell’evento.

In casi di emergenza occorre “ospedalizzare” l’Rsa per il tempo necessario, fornendo un supporto adeguato alla eccezionalità dell’evento

Questo perché le case di riposo non hanno gli strumenti e le competenze giuste?
Le Rsa sono strutture dedicate a persone anziane non autosufficienti portatori di patologie croniche che toccano prevalentemente le tematiche della cognitività, della capacità di deambulazione e mediamente sono persone portatrici di significativi stati di commorbilità. le Rsa sono luoghi assistenziali pensati per ricreare o ricordare gli ambienti della casa di provenienza degli anziani. In Rsa si trattano patologie croniche e non acute. Se viene un infarto a un ospite, a titolo di esempio, ha a sua tutela il pieno diritto di essere portato in ospedale. Si può comprendere che durante una pandemia non si sia ritenuto opportuno da parte di chi governa di garantire l’accesso alla persona anziana in un pronto soccorso o in una terapia intensiva, poiché eccessivamente oberati da un numero pesantissimo di accessi. Se però così è stato e potenzialmente ancora così potrebbe essere in altre parti d’Italia, è necessario “portare l’ospedale” nella Rsa. Le persone anziane e disabili hanno diritto alla tutela della loro salute in termini di presa in carico tanto quanto gli altri cittadini ed allo stesso modo i lavoratori che si occupano di loro.

In che senso?
Le faccio un esempio sui Dispositivi di Protezione Individuale, ossia le mascherine, i camici monouso, i guanti e quant’altro necessario a prevenire possibili infezioni da contatto. Fino a poco tempo fa la Protezione Civile aveva un protocollo che prevedeva che se arrivavano mascherine dalla Cina per una struttura socio-sanitaria venivano requisite e distribuite alle sole strutture ospedaliere o comunque del comparto sanitario. Ma veniamo all’oggi. Adesso il nodo non è essere buoni o cattivi, ma comprendere che non si parte dal luogo, ovvero l’ospedale, ma dalle persone. Allora se valutiamo che la pandemia mette a rischio la popolazione più anziana, bisogna che attrezziamo adeguatamente e ci preoccupiamo in primis dei luoghi vivono queste persone.

Avete fatto richiesta di avere strumentazioni e personale “da ospedale”?
Sì e le cose piano piano stanno migliorando. Torno sul punto però ora è necessario togliere spazio alle polemiche e non è adesso il tempo delle “commissioni di inchiesta”. E’ ancora il tempo di assistere ed aiutare. Ora potrebbe servire definire un percorso di presa in carico più idoneo per le persone anziane che vivono in strutture di ricovero e garantire a loro ed ai lavoratori di questi luoghi innanzitutto tamponi e dispositivi di protezione. Se si ritiene che in queste strutture si debba prendersi carico di tutto il percorso infettivo è necessario sapere chi è infetto e chi no, al di là dell’insorgere della sintomatologia. Poi occorre supportare questi luoghi, come effettivamente in maniera non omogenea alcune Agenzie di tutela della salute sui territori hanno già iniziato a fare, fornendo da parte della Sanità per acuti consulenze in termini infettivologiche, pneumologiche ed anche supportare sulla disponibilità ed uso dei farmaci antivirali. In linea generale bisogna creare una dimensione più collaborativa. La lezione è questa. E abbiamo ancora tutto il tempo per migliorare la volontà comune di prendersi carico della generazione più fragile.