Può un’associazione assumere un ruolo di motivazione etica?

Avv. Silvia D’Angelo

Pubblicato sulla rivista CURA

La diffusione del Covid-19 nelle RSA è ormai sulla bocca di tutti. La chiamano “strage degli innocenti” e le dedicano prime pagine sui quotidiani e nei notiziari. A partire dalle clamorose indagini presso il Pio Albergo Trivulzio, che hanno portato all’attenzione mediatica la difficile situazione che anche queste realtà stanno affrontando, sono ormai all’ordine del giorno, soprattutto in Lombardia, le investigazioni avviate sulla base di denunce di operatori, sindacalisti e parenti.

La situazione è drammatica e si rischia tutt’oggi di perdere genitori e nonni, anziani disabili e affetti da comorbilità ricoverati presso i duecentomila posti letto disponibili a livello nazionale, di cui la Lombardia ne rappresenta da sola circa sessantamila.

Ciò nonostante è sbagliato identificare queste realtà come luoghi di morte. Non può infatti trovare spazio nell’immaginario comune la visione delle RSA come luoghi in cui vengono a mancare i nostri cari, diversamente queste realtà perderebbero la propria dignità e si snaturerebbe l’originaria e connaturata funzione di assistenza ai soggetti cronici volta a garantire, al contrario, l’aumento delle probabilità di vita, tanto che oggi si riesce a dare una quarta età anche ai soggetti non autosufficienti, con una speranza di vita che varia mediamente da due a cinque anni.

Tale visione rischia peraltro di aggravare il già tragico impatto sull’economia di questa unità di offerta che la pandemia sta avendo e di pregiudicare, di conseguenza, l’intero sistema di presa in carico basato su realtà prevalentemente appartenenti al no profit, quindi ad un mondo già di per sé non caratterizzato da redditività.

In un momento in cui si pensa a trovare il responsabile e si accusa di non aver applicato tutte le misure necessarie a bloccare l’ingresso del virus, occorre innanzitutto capire che nelle strutture residenziali il Covid ha trovato terreno fertile perché è in questi luoghi che vive la popolazione più fragile e a rischio. Un rischio non soltanto di contagio, ma di maggior letalità sia per il quotidiano contatto con gli operatori sia per la tipologia di ricoverati: persone ultraottantenni, non autosufficienti e nella maggior parte dei casi affetti da una pluralità di patologie.

E’ importante dunque che l’attenzione mediatica che oggi viene riservata al mondo RSA non ponga in risalto soltanto il dilagare del virus, rischiando in tal modo di danneggiare irrimediabilmente l’immagine di questi luoghi deputati all’assistenza, ma induca a riflettere sul fatto che troppo a lungo queste realtà sono state messe da parte dalle Autorità, le quali non hanno riservato la dovuta considerazione a strutture in cui dimorano le persone più esposte al rischio d contagio.

Non si è infatti compresa da subito la delicatezza e la problematicità di questi luoghi, probabilmente in quanto imperante una concezione ancora fortemente “ospedalocentrica” del sistema di welfare, che incontra il limite di non valorizzare le altre unità d’offerta territoriali relegandole ad un ruolo ancillare e di supporto rispetto all’ospedale.

In quest’ottica si può valutare la scelta di Regione Lombardia con la DGR n. XI/2906 del 08/03/2020 di deflazionare il sistema ospedaliero chiedendo ai luoghi di vita di persone anziane e disabili di accogliere pazienti Covid dimessi dagli ospedali. L’obiettivo, si comprende, era quello di supportare le strutture ospedaliere congestionate nelle terapie intensive, ma evidentemente l’inusitato numero di pazienti bisognosi di assistenza sanitaria e la situazione di emergenza che il paese si è trovato improvvisamente ad affrontare non ha consentito di prevedere fino in fondo, soprattutto nella fase iniziale di propagazione del virus, le criticità a cui si esponeva anche il sociosanitario.

Il problema è non aver pensato a potenziare l’offerta di prestazioni sanitarie per i soggetti contagiati nelle RSA. Queste strutture non erano e non sono infatti in grado di affrontare una simile situazione con le proprie forze, ma d’altro canto non è stato immediatamente garantito loro il supporto necessario per fronteggiare l’emergenza. Le RSA si sono così trovate a gestire da sole casi acuti senza avere le adeguate competenze, né la strumentazione necessaria.

Hanno fronteggiato il virus in una condizione di grave carenza dei dispositivi di protezione individuale e di difficoltà di approvvigionamento, riscontrando spesso il blocco delle forniture poiché precettate dalla Protezione Civile per gli ospedali.

Analoga sorte è toccata ai tamponi: non destinati prioritariamente a tali realtà e, quando concessi, effettuati a distanza di mesi dalle richieste. In molti casi non è stato neppure consentito il trasferimento di pazienti sintomatici presso le strutture ospedaliere per evitare di congestionare ulteriormente le terapie intensive.

Sono mancati inoltre protocolli ed indicazioni di gestione del rischio in RSA omogeni, ma soprattutto non è stato garantito il necessario supporto ai medici delle RSA, esperti nella cura delle malattie croniche, da parte di medici specializzati, come infettivologi, pneumologici e rianimatori.

Di fronte ad una pandemia, che oggi continua a colpire vittime innocenti, è inevitabile riscontrare omissioni ed errori di valutazione. Non è però il momento di colpevolizzare ed individuare responsabili. È il momento di impegnarsi e definire strategie per superare questa tragica situazione, ma soprattutto quello di imparare dagli errori. È il momento, in altri termini, di dare nuova vita al sociosanitario, sostenendo, oltre agli ospedali, le strutture residenziali, presidiando il territorio e garantendo assistenza alle realtà più a rischio.

Sino ad oggi non sono mancati comunque esempi virtuosi. Il mondo del no profit,che gestisce la gran parte delle strutture presenti in Lombardia e sul territorio nazionale, ha mostrato la capacità di essere un esempio etico.

Merita un ringraziamento innanzitutto la schiera di operatori che, con responsabilità e motivazione, ha continuato ad operare e ad assistere quotidianamente gli utenti in questo difficile momento, riconoscendo il valore della persona e la dignità di una vita, anche se di un ultraottantenne.

Non deve poi dimenticarsi l’impegno profuso da numerose realtà, che hanno da subito denunciato all’ATS e alle Regioni competenti le criticità e le difficoltà riscontrate per far sì che le strutture residenziali non restassero abbandonate a lungo.
Nel frattempo hanno riprogrammato l’organizzazione interna e i luoghi di dimora per creare percorsi separati e garantire l’isolamento di reparti dedicati alle persone sintomatiche, hanno studiato procedure e protocolli per prevenire e contenete la diffusione del contagio, hanno lottato da ultimo contro la limitatezza delle risorse e i vincoli burocratici per reperire, per quanto possibile, gli strumenti di protezione necessari a tutelare la salute dei propri ospiti e lavoratori.

Oggi è necessario ripartire da qui: devono in primo luogo garantirsi i dispositivi di protezione individuale anche per queste realtà e deve assicurarsi la possibilità di fare in maniera sistematica tamponi tanto agli utenti quanto ai lavoratori, affinché le strutture residenziali siano poste nelle condizioni di tutelare ed assistere la popolazione che ivi dimora o vi lavora. Non meno importante il supporto farmacologico e di medici specializzati.

Se è vero che le riforme nascono da esigenze di adeguamento ai tempi, si auspica che questo momento possa portare ad un cambiamento di prospettiva che consenta di valorizzare le RSA non soltanto in funzione di supporto all’ospedale, secondo un modello che ha mostrato i suoi limiti le sue fragilità, ma come unità d’offerta fondamentali sul territorio. Le RSA non sono luoghi di morte, sono luoghi di vita. Viviamo infatti in un momento di innovazione e ricerca, nel quale aumentano le prospettive di vita e diviene fondamentale la presa in carico dell’anziano: appare quindi importante valutare la messa in campo di risorse pubbliche per garantire un innalzamento del livello qualitativo delle prestazioni per una parte di popolazione anch’essa preziosa.