Intervista a Luca Degani
Ringraziamo l’avv. Degani per aver accettato di contribuire a delineare un quadro di indagine più preciso sul ruolo professionale dei manager di strutture per anziani, offrendoci la sua visione e il suo punto di vista come esperto del settore, sia in qualità di avvocato, sia come presidente regionale dell’associazione UNEBA.
Qual è, secondo te, dal 2000 a oggi il cambiamento più rilevante nel nostro settore?
“È la perdita della dimensione ideologica legata al servizio. La concezione di oggi non è più quella degli inizi del ‘900: è venuta meno la visione solidaristica di inizio secolo. I servizi, oggi, sono diventati di fatto elementi di produzione del consenso. Vengono offerti servizi assistenziali alla generalità della popolazione e non, come un tempo, semplicemente alle classi sociali maggiormente segnate da difficoltà socio-economiche. Ora i servizi sono una ‘promessa’ a tutti i cittadini, al fine di ottenere un allungamento e un miglioramento della qualità di vita.”
Per entrare in un tema molto concreto: esistono anche problemi di tipo economico?
“La situazione economica ha certamente una grande influenza. Nel nostro tempo i servizi non possono più essere visti come uno strumento di ridistribuzione di risorse alle classi più disagiate, perché in realtà siamo di fronte a una riduzione generalizzata delle possibilità economiche. E bisogna anche considerare che la spesa è aumentata e che di conseguenza le risorse pubbliche non sono sufficienti. Ciò porta a un risultato inevitabile: pensare alle risorse private. L’esito di questo – cioè del fatto che per garantire i servizi sia necessario far ricorso alle risorse private – è che non ha più senso conservare una visione del servizio come atto che ‘viene dall’alto’. Oggi tutto funziona all’interno di una matrice contrattuale secondo un paradigma così sintetizzato: ‘pago quindi pretendo qualità’”.
Con queste premesse ha ancora senso parlare di universalità del diritto ai servizi?
“Il ‘bene salute’ ormai è inserito in una dimensione di mercato e quindi, per assicurare una buona e corretta gestione, servono delle logiche a cui non tutti i gestori sono avvezzi. Tali logiche, per la verità, appartengono istituzionalmente al mondo del privato profit. L’azienda privata for profit è l’elemento che si avvia al maggior sviluppo nel settore – la potremmo definire ‘la tigre del sociosanitario’ – mentre il non profit sarà comunque sempre l’elemento meglio attrezzato e addirittura imbattibile per i servizi rivolti all’indigenza. Il no profit sarà sempre quanto di meglio esista nel panorama del mercato per la capacità di rispondere alla domanda di quel segmento rappresentato dai soggetti deboli.”
E la Riforma del Terzo Settore? Non è a favore del no profit?
“No, non è così. Nel complesso della Riforma gli attori profit sono presenti e sono anche molto forti. C’è l’impresa sociale, che non è in alcun modo una fotocopia della Cooperazione, vi sono anche aziende in forma societaria con finalità sociali, che potranno parzialmente distribuire utili. E vi sono organizzazioni private che, offrendo servizi rivolti alla cittadinanza, ne miglioreranno la qualità di vita utilizzando gli strumenti tipici della gestione economica.”
Ultima domanda: nella situazione che hai descritto, come pensi si debba orientare la formazione dei dirigenti?
“Le tecnicalità sono ben acquisite, quindi ciò che occorre promuovere è la definizione di un’identità. Bisogna analizzare e far studiare quelli che sono i paradigmi valoriali e porre la dovuta attenzione alla lettura motivazionale che si dà a questo lavoro. Occorre inoltre un superamento del pregiudizio sull’operatore buono o cattivo a partire dalla sua area di appartenenza, per alimentare un pensiero che sappia comprendere e definire il senso della soddisfazione economica che deriva dall’attività di produzione dei servizi.”
Fonte: meetingdelleprofessionidicura.com