Brevi considerazioni a cura dell’Avv. Degani, Dott. Lopez e Avv. Ubezio in tema di Risk Management e sicurezza.
Per inquadrare al meglio la tematica del Risk Management è necessario muovere dall’assunto che in ogni organizzazione complessa, l’errore e la possibilità di un incidente non sono eliminabili.
Proprio per questo motivo gli attori del sistema devono mettere in atto tutti gli interventi più opportuni perché questi incidenti siano, per lo meno, controllabili.
Il concetto di Risk Management è un concetto universale, che ha trovato applicazione in ogni settore dell’economia moderna, ed è definibile come quel processo attraverso il quale si identifica, stima o misura un rischio e successivamente si sviluppano delle strategie mediante il coordinamento delle risorse per minimizzarlo e governarlo (Douglas, 2009).
Tuttavia, non in tutti i campi e gli ambiti il concetto di Risk Management ha avuto la medesima evoluzione ed applicazione. Infatti, in campo sanitario si inizia a parlare di errore e della sua prevenzione tardivamente rispetto ad altri settori lavorativi ad alto rischio come i sistemi di trasporto aereo e ferroviario, le centrali nucleari, gli impianti chimici; questo, probabilmente, anche perché le conseguenze di un incidente in questi settori sono catastrofiche e clamorose.
Chiaramente i settori del socio-sanitario e del sanitario sono molto differenti rispetto a quelli dell’industria, del trasporto o anche solo della finanza: si affidano alla professionalità e alla motivazione del personale (clinico, assistenziale e dirigenziale), comprendono una serie di attività molto diverse le une dalle altre e soprattutto caratterizzate da una naturale imprevedibilità, e quindi non possono essere approcciati in modo standardizzato e sistematico come si può, al contrario, fare con compiti routinari, tipici di determinati comparti dell’industria. In ambito socio-sanitario e sanitario, il controllo dell’errore si applica con politiche volte alla sicurezza dei pazienti e quindi alla gestione di quanto viene definito come rischio clinico; quest’ultimo si traduce nella probabilità che un paziente sia vittima di un evento avverso, ossia che subisca un qualsiasi “danno o disagio imputabile, anche se in modo involontario, alle cure mediche prestate durante il periodo di degenza, che causa un prolungamento del periodo di degenza, un peggioramento delle condizioni di salute o la morte” (Kohn et al., 1999).
Il rischio clinico può essere minimizzato attraverso attività di Risk Management, implementate a livello di singola struttura socio-sanitaria o sanitaria, a livello aziendale, regionale, nazionale. Queste iniziative sono caratterizzate da strategie di lavoro che prevedono la partecipazione di numerose figure professionali operanti in ogni ambito dell’attività tipica della singola struttura, sia essa afferente il sistema socio-sanitario o quello sanitario. Un’attività di Risk Management efficace si sviluppa in diverse fasi, che verranno esaminate più nel dettaglio nei capitoli seguenti del presente dossier:
- conoscenza e analisi dell’errore (sistemi di report, revisione delle cartelle, utilizzo degli indicatori);
- individuazione e correzione delle cause di errore attraverso Root Causes Analisys (RCA), analisi di processo, Failure Mode and Effect Analysis (FMEA);
- monitoraggio delle misure messe in atto per la prevenzione dell’errore;
- implementazione e sostegno attivo delle soluzioni proposte.
Inoltre, un buon programma di Risk Management deve essere articolato e integrare tutti gli ambiti in cui l’errore si può manifestare nell’interezza del processo clinico assistenziale del paziente (Ministero della Salute, 2003). È evidente che la responsabilizzazione di tutti i professionisti dell’équipe medica ed assistenziale, implica innanzitutto un cambiamento culturale in cui l’errore possibile non è più da considerarsi come oggetto di attribuzione di colpe o sanzioni, ma deve diventare un’opportunità di miglioramento. L’errore in ambito clinico, infatti, viene ammesso raramente da parte dei professionisti sanitari, soprattutto nella relazione con i pazienti, probabilmente in ragione di quei retaggi culturali e di percezione dell’arte medica. Fino all’inizio degli anni ’90 non si riconosceva la portata di questo problema; solo con l’esplodere di casi divulgati all’opinione pubblica e con l’incremento esponenziale delle cause legali in ambito sanitario, nonché grazie all’apporto di vari professionisti che si sono impegnati per diffondere il concetto di trasparenza nella comunicazione di eventi indesiderati, ora l’analisi sull’errore e sul danno può avvalersi di un corpus significativo di ricerche (Vincent, 2007).
Nel 1983 venne pubblicato l’articolo The critical attitude in medicine: the need of a new ethics, scritto dal professore Neil McIntyre e dal filosofo Karl Popper, in cui veniva deplorata la tendenza dei medici a rinnegare l’errore; quest’ultimo, affermano gli Autori, non deve essere considerato un segno di inettitudine, ma un valore e una risorsa per evolvere e migliorarsi. Per questo motivo non bisogna nasconderlo, nemmeno quando viene commesso da una persona autorevole nel suo campo e quindi considerata – erroneamente – infallibile.
Gli Autori affermano inoltre che, mentre secondo la precedente visione la conoscenza cresce per “accumulo”, aggiungendo dati su dati, è preferibile una prospettiva di miglioramento per “correzione”, grazie al riconoscimento degli errori commessi. Nel 1999 l’Institute of Medicine degli Stati Uniti (IOM) pubblicò To err is human, un rapporto sulla sicurezza e sulla qualità delle cure a tutti i livelli del sistema sanitario; all’interno viene evidenziata la centralità della sicurezza del paziente nei sistemi sanitari moderni.
Un dato che apparve subito eloquente fu quello relativo ai decessi per errori clinici negli ospedali statunitensi, che oscillava tra i 44 mila e i 98 mila l’anno, con un totale di 1 milione di persone danneggiate in modo più o meno grave.
Un maggior numero di decessi, quindi, rispetto a quelli causati da incidenti d’auto (43 mila), tumori al seno (42 mila) o AIDS (16 mila) (Khon, 1999). Fu subito chiaro che questo rapporto avrebbe suscitato l’interesse non solo del personale sanitario, ma anche della classe politica. Infatti, nel novembre 1999, subito dopo la divulgazione del rapporto, il Congresso iniziò delle interrogazioni e il Presidente degli Stati Uniti diede indicazione al Governo di studiare la fattibilità delle raccomandazioni elencate (istituzione di centri e programmi nazionali, sviluppo di sistemi di reportistica e aumento della partecipazione di professionisti, utenti, agenzie di indirizzo e controllo) (Leape, 2000).
Studi recenti indicano un tasso di eventi avversi durante la degenza del 10% circa, e di questi circa il 5% potrebbe essere previsto ed evitato; si sono ottenuti risultati sostanzialmente analoghi nel Regno Unito, in Danimarca e in Nuova Zelanda, mentre gli Stati Uniti presentano tassi minori (un risultato probabilmente dovuto al maggiore focus sulla negligenza rispetto alla qualità delle cure in toto) (Thomas et al., 2000).
Anche il tasso di eventi prevenibili, che rappresenta la metà circa rispetto agli eventi avversi, è piuttosto costante (se si esclude il caso neozelandese): questi eventi si configurano come errori nell’attività clinica. Si evidenzia quindi l’esigenza di orientare l’attenzione verso il concetto di “errore prevenibile” e di proseguire verso questa direzione. I dati riportati in letteratura comprendono soprattutto ricerche sui tassi di errori in ambito ospedaliero; solo recentemente sono state intrapresi studi volti all’analisi dell’errore al di fuori, outpatient, del percorso nosocomiale (Forster, 2003), dai quali si è accertato che anche in questa fase del percorso assistenziale del paziente vengono commessi errori.
Se da un lato appare difficoltoso analizzare l’errore all’interno di una struttura sanitaria, delimitata spazialmente ma caratterizzata da un’organizzazione complessa, risulta un’impresa più ardua esaminare il percorso dei pazienti al di fuori dell’ambiente ospedaliero. Gli studi condotti riguardano soprattutto la compliance terapeutica: rivelano che gli errori sono frequenti e si concentrano prevalentemente nell’area dell’uso dei farmaci (Ministero della salute, 2003).
Risulta più difficile effettuare delle estrapolazioni su altre realtà nazionali, quali per esempio l’Italia, dove poche sono le iniziative in corso a livello aziendale o regionale e non esistono ancora degli studi approfonditi per identificare la portata del problema.
Si può fare riferimento, tuttavia, ad alcuni dati pubblicati sulla rivista Rischio Sanità nel mese di giugno del 2001. Secondo la trimestrale, nel nostro Paese, ogni anno, sono circa 8 milioni le persone che vengono ricoverate.
Di queste, 320 mila (il 4% circa) escono dall’ospedale riportando danni e malattie dovuti a errori nelle cure o a disservizi ospedalieri. Le morti oscillano tra 50 mila, nelle stime più pessimistiche riportate nella rivista, e 14 mila, nelle valutazioni più ottimistiche dell’Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani.
È altamente probabile che la cifra sia compresa tra le 30 e le 35 mila unità, ossia l’equivalente del 6% circa dei decessi (557.584) che si sono registrati in Italia nel 2000, andando così ad affiancarsi a cause di morte come il tumore al polmone, bronchi e trachea (31.000 morti), l’infarto miocardico (35.515 morti) e le morti per cause accidentali e violente, incidenti stradali in testa (24.667).
A confermare queste cifre in anni più recenti è stata l’Associazione italiana di Oncologia medica (Aiom), che in collaborazione con Dompé Biotec, ha organizzato nel 2010 un convegno nazionale proprio su questo tema.
Secondo quanto emerso è stato confermato che gli errori commessi dai medici o causati dalla cattiva organizzazione dei servizi sanitari provocano più vittime degli incidenti stradali, dell’infarto e di molti tumori. Di seguito alcune ulteriori cifre: tra 14 mila (secondo l’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri) e i 50 mila decessi all’anno, secondo Assinform.
Il che significa circa 80-90 morti al giorno (il 50% dei quali evitabile), 320 mila le persone danneggiate.
Il decesso è uno tra gli eventi indesiderati che si possono verificare e rappresenta la punta di un iceberg: un evento avverso, o accident, è un evento inatteso correlato al processo assistenziale e che comporta un danno al paziente, non intenzionale e indesiderabile (Ministero della Salute, 2006). Il danno può essere inteso sia come lesione (temporanea o permanente) o disabilità del paziente al momento della dimissione, sia come prolungamento dell’ospedalizzazione. In ogni caso deve essere non intenzionale. L’evento avverso è solo quanto emerge da un insieme numeroso di eventi che non procurano danno. Secondo il noto triangolo della sicurezza, a ogni accident corrispondono più eventi indesiderati o incident (secondo il glossario del Ministero della salute un incident è un accadimento che ha dato o aveva la potenzialità di dare origine a un danno non intenzionale e/o non necessario nei riguardi di un paziente). A sua volta, per ogni accadimento senza danno, si sono verificati molti più quasi eventi o near miss (errore che ha la potenzialità di causare un evento avverso che non si verifica per caso fortuito o perché intercettato o perché non ha conseguenze avverse per il paziente). Alla base del triangolo, infine, troviamo i pericoli, le fonti potenziali di danno, una condizione che potrebbe favorire l’errore e che è molto frequente all’interno delle organizzazioni complesse. La segnalazione di quasi eventi è fondamentale poiché incoraggia una condotta proattiva e preventiva per la sicurezza attraverso una costante attenzione verso le condizioni di pericolo presenti nelle organizzazioni – anche quelle già molto sicure rispetto a ogni standard. Lucian Leape, medico e professore presso l’Harvard School of Public Health, nel 1994 scriveva anticipando i tempi: “La prevenzione degli errori in medicina ha tipicamente seguito quello che si potrebbe definire “il modello della perfezione”: se i medici e gli infermieri potessero essere preparati correttamente e motivati, non farebbero errori”[1]. Proprio contrastando questo modello, Leape afferma che tutti gli esseri umani commettono errori frequentemente, e che spesso questi errori sono l’esito di una vasta gamma di fattori che vanno al di là del controllo individuale. Un altro studioso, James Reason, psicologo e professore emerito di psicologia presso l’Università di Manchester, durante la sua carriera si è occupato di errore umano e di gestione del rischio di incidente nelle organizzazioni complesse; nel suo libro più famoso, Human Error, pubblicato nel 1990, egli spiega che gran parte del funzionamento mentale è automatico, rapido e non richiede sforzi mentali. Questa “modalità di controllo automatica” è molto ben rappresentata dal seguente esempio: una persona può guidare la propria auto fino al lavoro senza prestare particolare attenzione alle centinaia di manovre e decisioni richieste lungo la strada. Ciò è possibile grazie a un insieme di modelli mentali, gli “schemi”, che processano rapidamente le informazioni senza sforzi coscienti. Ma le attività cognitive possono anche essere consce e controllate; in questo caso la modalità di controllo è “attenzionale”, usata per il problem solving oppure per monitorare le funzioni automatiche. Il processamento in questo caso è lento, sequenziale, richiede impegno mentale ed è più difficile da sostenere con le nostre risorse. Basandosi su queste modalità, Rasmussen e Jensen definiscono la performance:
- skill-based: governata da istruzioni pre-programmate all’interno degli schemi, quindi automatica[2];
- rule-based: governata da regole immagazzinate nel passato[3];
- knowledge-based: utilizzata per nuove situazioni che richiedono un processamento analitico conscio (più sul versante “attenzionale”)[4].
Gli esseri umani preferiscono soluzioni preimpostate, quindi fare uso di schemi, o eventualmente di regole, prima di ricorrere a un faticoso funzionamento knowledge-based. Infatti gli esperti, in qualsiasi campo (ad esempio i giocatori di scacchi), possiedono un vastissimo repertorio di schemi e di regole rispetto a chi si è approcciato da poco a quel campo (Leape, 1994). I tipi di comportamento/performance sopra descritti non sono innati nei singoli soggetti, ma ognuno dovrà arrivare ad acquisirli come propri gradualmente e in sequenza. I comportamenti skill-based infatti derivano dalla pratica in situazioni che all’inizio hanno richiesto impiego di conoscenza e capacità di problem solving, ovvero knowledge-based. Ovviamente non vi è una tipologia di comportamento che può considerarsi esente dal rischio di commissione di errore, e ogni errore può essere riconducibile a una specifica causa. Tuttavia, anche gli errori sono stati suddivisi e ricondotti in macro categorie da Reason sulla base delle categorie introdotte da Rasmussen sopra elencate, in base ai vari livelli del modello skill, rule e knowledge-based, come segue.
▪ Distrazioni e lapsus (slips e lapses). Sono errori di esecuzione, skill-based: la persona ha pianificato cosa fare, ma l’azione non riesce secondo le intenzioni. Questi errori sono dovuti a difetti nella memoria, oppure a cambiamenti nel decorso usuale dell’azione o nell’ambiente circostante quando si devono effettuare compiti di routine in ambienti familiari. Se, avendo cambiato la disposizione dei farmaci su un tavolo, si cercassero di nuovo nel luogo originario, si commetterebbe un lapsus – ovvero un vuoto di memoria, un difetto. Se invece, ricordandosi di avere spostato la disposizione dei farmaci, si facesse cadere una confezione mentre si è concentrati in altri compiti, accadrebbe una distrazione.
▪ Sbagli (mistakes). L’errore avviene a un livello superiore, ossia a un livello di processi mentali di pianificazione, di formulazione di intenzioni, di giudizio e di risoluzione di problemi (rule-based o knowledge-based). Ad esempio, se si volesse trattare una patologia con un farmaco errato a causa di una diagnosi non corretta, l’esecuzione dell’azione avverrebbe come pianificato (somministro il farmaco scelto al paziente), ma ne conseguirebbe uno sbaglio perché il giudizio iniziale che ha dato origine all’azione è errato (Leape, 1994). Oltre agli errori, Reason individua anche le violazioni, deviazioni intenzionali dalle pratiche operative sicure, dagli standard e dalle regole, al fine (a volte ingannevole) di facilitare i compiti. Le violazioni, a differenza degli errori, dipendono molto più dal contesto (sociale o lavorativo); in sostanza avvengono:
- quando si vuole risparmiare tempo;
- quando l’azione devia dalle procedure perché sembra la sola via possibile;
- quando si compie un’azione volutamente pericolosa al fine di mitigare la monotonia.
[1] “Efforts at error prevention in medicine have characteristically followed what might be called the perfectibility model: if physicians and nurses could be properly trained and motivated, then they would make no mistakes”.
[2] Il Ministero della sanità li definisce “comportamenti automatici ad una data situazione. All’individuo si propone uno stimolo cui reagisce meccanicamente senza porsi problemi d’interpretazione della situazione stessa. Tale abilità si sviluppa dopo che lo stimolo si è ripetuto per più volte, sempre nello stesso modo. È un tipo di comportamento riscontrabile in situazioni di routine” (Ministero della salute,2003).
[3] Sempre il Ministero della sanità li definisce “comportamenti prescritti da regole, che sono state definite in quanto ritenute più idonee da applicare in una particolare circostanza. Il problema che si pone all’individuo è identificare la giusta norma per ogni specifica situazione attenendosi ad un modello mentale di tipo causale”. Ibidem.
[4] Ancora il Ministero della sanità li definisce “comportamenti messi in atto quando ci si trova davanti ad una situazione sconosciuta e si deve attuare un piano per superarla. È la situazione che richiede il maggior impiego di conoscenza e l’attivazione di una serie di processi mentali che dai simboli porteranno all’elaborazione di un piano per raggiungere gli obiettivi”. Cfr., Ibidem.
La distinzione tra distrazioni, sbagli e violazioni non è sempre immediata, e non è sicuramente di semplice applicazione nella pratica. Tuttavia cercare di comprendere il contesto in cui avviene l’azione ci aiuta a capire la causa di quell’avvenimento, e quindi a prevenirne la successiva ripetizione.
Tutto ciò è possibile solo a fronte di una trasparenza nelle segnalazioni di eventi; la mancata segnalazione di errori o violazioni è spesso dovuta a sensi di colpa e timori, oppure alla paura di sfociare nel contenzioso (Vincent, 2007). Diventa quindi fondamentale diffondere la cosiddetta “cultura della sicurezza”, intendendo con cultura la potente influenza delle forze sociali nel modellare il comportamento. In sostanza, siamo influenzati dalle regole circostanti nel consolidare buone, oppure cattive, abitudini.
Gli errori umani non possono essere analizzati separatamente ma all’interno di un modello sistemico, in relazione al contesto in cui le persone lavorano “Ben lungi dall’essere gli artefici di un incidente, gli operatori ereditano i difetti del sistema (…) il loro ruolo è solitamente quello di aggiungere il componente finale ad un infuso letale i cui ingredienti erano già sul fuoco da tempo” (Reason, 1990, pag. 187). Gli esseri umani possono contribuire al verificarsi di un incidente attraverso azioni od omissioni in una delle varie fasi di un processo; tuttavia vi sono spesso “condizioni latenti”, fattori posti a monte della catena causale, che giocano un ruolo fondamentale nella genesi di un evento indesiderato (Vincent, 2007).
Anche le confezioni identiche di due farmaci, che originano dalla decisione di un’azienda di produrre tutte le confezioni nello stesso modo per non aggiungere ulteriori spese al processo di produzione, sono fattori latenti che possono portare ad un errore se interviene il “fattore attivo” umano nel somministrare il farmaco errato. Questa viene definita in dottrina “Teoria degli errori latenti”.
Il presupposto di tale teoria è che per ogni incidente che si verifica, ce ne sono stati molti altri che non sono avvenuti solo perché l’operatore, un controllo, o anche solo una casualità fortunata, ha impedito che si verificasse (questi “mancati errori” vengono definiti near miss events). Molti incidenti, per essere compresi, devono essere osservati da una prospettiva sistemica.
Il modello di analisi organizzativa di Reason (Figura 2) descrive un processo di sviluppo dell’incidente che parte dalle conseguenze negative di processi organizzativi e manageriali, passa attraverso i luoghi di lavoro tramite percorsi correlati all’individuo, al gruppo, al compito e/o al paziente, e crea le condizioni favorevoli all’accadimento di errori e violazioni. Solo poche azioni superano le barriere di difesa del sistema.
Tuttavia alcuni sistemi di sicurezza (come allarmi e procedure) possono risultare inefficienti per fallimenti latenti e/o attivi e quindi superare tutte le fasi approdando direttamente dai processi organizzativi a quelli difensivi. Se un evento avverso si verifica, significa che vi sono stati degli errori attivi, cioè commessi da operatori che sono in diretto contatto con il paziente, e errori latenti, cioè remoti nel tempo e riferibili a decisioni di progettazione del sistema, errori di pianificazione.
A questo proposito si deve considerare che gli errori attivi non possono, per loro stessa natura, essere eliminati definitivamente, perciò per aumentare la sicurezza di un sistema è necessario influire sulle criticità latenti, sulle quali gli errori attivi poi si innestano.
Dal modello sopradescritto si potrebbe evincere una totale rimozione della responsabilità individuale: il delicato compito di un’organizzazione, invece, dovrebbe essere quello di promuovere una cultura aperta e giusta, che si discosti dalla colpevolizzazione immediata, irrazionale ed eccessiva (che a lungo termine si rivela controproducente), ma che favorisca la responsabilità e affidabilità delle persone, nel momento in cui si scoprono consapevoli della fallibilità umana ed organizzativa.
Le persone e le organizzazioni imparano attraverso l’identificazione e la riflessione sugli errori; per questo si sostiene che si possa crescere ed evolvere solo attraverso il riconoscimento degli errori (Vincent, 2007).
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