In questo approfondimento si effettua una riflessione sul tema della disabilità nel contesto dell’attuale cambiamento dei sistemi di welfare in ragione della carenza di risorse a fronte, però, di una crescita dei bisogni. Articolo a cura dell’Avv. Luca Degani e dell’Avv. Raffaele Mozzanica, pubblicato sulla rivista Non Profit, n. 2/2011.
La riflessione sul tema della disabilità oggi, nell’ambito del profondo cambiamento che i sistemi di welfare stanno attuando accompagnato dalla carenza di risorse economiche a fronte di una crescente domanda/esigenza di risposte molteplici, non può trascurare il delicato tema dell’integrazione socio sanitaria.
L’indagine che si propone in questo contributo delinea il quadro delle competenze e dei ruoli istituzionali insieme alle competenze economiche, che da sempre rappresentano lo snodo critico dell’integrazione, a partire dal quadro normativo attuale che delinea l’integrazione socio-sanitaria, alla luce del modello di garanzia (anche) dei diritti sociali, affermatosi con il nuovo art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione.
La persona disabile in un contesto sociosanitario esprime quella complessa problematica della persona umana con alcuni dei suoi bisogni più profondi, quello di salute, patologico, identificabile, spesso curabile, e quello sociale, di disagio e di relazione, spesso oscuro, insondabile, di difficile individuazione. Si approcciano dunque le situazioni di vita dell’esistenza che racchiudono spesso una domanda di senso e che rimandano agli ambiti della non autosufficienza, della non autonomia, della cronicità, della dipendenza.
L’attuale assetto normativo dell’integrazione è figlio di percorsi spesso separati, nei quali la disciplina relativa alla tutela della salute ha avuto evoluzione diversa da quella dell’assistenza, trovando non sempre coerenza tra questi due ambiti.
Di fatto, sotto il profilo della produzione normativa, si è assistito ad una disciplina in cui il diritto alla tutela della salute ha esteso la sua applicazione a quelle fattispecie in cui il bisogno di salute si interseca con il bisogno di assistenza; ciò tentando di armonizzare due sistemi organizzativi complessi e diversi per vari aspetti: prestazioni, competenze, finanziamento, programmazione.
In origine, a dire il vero, tutti gli interventi di carattere sociale e sanitario erano ricondotti al settore della beneficenza pubblica, secondo quanto era disposto dalla Legge Crispi.
Una regolazione della materia più compiuta comincia ad aversi con l’istituzione del SSN (L. 833/1978), laddove si prevedeva che con leggi regionali si stabiliva di definire la gestione coordinata ed integrata dei servizi dell’unità sanitaria locale (sanitari) con i servizi sociali esistenti nel territorio (sociali).
In quegli anni solo alcune regioni hanno ottemperato a tale compito, ed alcune solo parzialmente. Il problema più urgente era invece rappresentato da come differenziare i costi che competevano da un lato al SSN con il FSN, dall’altro alla spesa dello Stato, con trasferimento di risorse fiscali da assegnare ai Comuni, in materia di spesa socio-assistenziale.
Per tale motivo è una Legge Finanziaria che regolamenta l’integrazione proprio sulla questione dei finanziamenti di competenza dell’ambito sanitario rispetto a quelli relativi all’ambito sociale, con forte attenzione al fatto che nessuna componente di ordine socio-assistenziale possa gravare sul SSN.
L’art. 30 della L. 730/1983 prevede infatti che sono a carico del fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali. Gli oneri concernenti le attività socio assistenziali devono gravare sul destinatario della prestazione oppure sull’Ente Locale di riferimento. Tali attribuzioni sono regolamentate dall’assunzione di una quota forfettaria rispetto alle componenti di costo del servizio, stabilita secondo particolari indici.
Alla differenziazione dei costi tra i comparti sanitario e sociale si è aggiunta una prima definizione delle prestazioni sanitarie connesse a quelle sociali, mediante il DPCM 8.08.1985, che delinea:
- le caratteristiche necessarie al fine di configurare l’attività nel senso di sanitaria connessa con quella sociale;
- all’art. 2 gli interventi che non rientrano tra le attività di rilievo sanitario connesse con quelle sociali , con peculiari ulteriori esclusioni dettate dagli artt. 3 e 5.
- L’art. 6 le attività socio-assistenziali di rilievo sanitario, con l’individuazione di settori di intervento riconducibili all’area della riabilitazione per disabili, della cura per anziani autosufficienti, della tossicodipendenza, del trattamento dei malati mentali.
In tale contesto le Regioni, sulla base del provvedimento dell’85, hanno implementato in maniera molto diversa la qualificazione delle funzioni soprattutto in relazione alla disabilità.
E’ necessario attendere la terza Riforma sanitaria per vedere definita l’integrazione sulla base delle prestazioni ad essa connesse. Con il D.Lgs. 229 del 1999, all’art. 3, septies, al primo comma infatti si afferma che sono “prestazioni sociosanitarie tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione”.
In particolare, nell’ambito generale della definizione data, il legislatore individua tre categorie di prestazioni sociosanitarie: “a) prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite; b) prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di handicap o di emarginazione condizionanti lo stato di salute”.
A queste prestazioni devono aggiungersi le prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria, ossia di particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria e attengono prevalentemente alle aree materno-infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcool e farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative.
Alle categorie così identificate sono corrisposte le reali prestazioni ad esse riconducibili, attraverso un atto di indirizzo – DPCM 14.02.2001. In particolare è stato regolamentato il finanziamento attraverso una precisazione dei criteri per individuare le competenze tra le aziende sanitarie locali e i Comuni (sostituendo così il DPCM dell’85).
Nel solco tracciato dalla Riforma sanitaria del ’99, tale provvedimento presuppone che “l’assistenza socio-sanitaria viene prestata alle persone che presentano bisogni di salute che richiedono prestazioni sanitarie ed azioni di protezione sociale, anche di lungo periodo, sulla base di progetti personalizzati redatti sulla scorta di valutazioni multidimensionali”. Si incomincia dunque a recepire l’essenza antropologica dell’integrazione, laddove si considera che determinati momenti della vita della persona rendono necessario un intervento finalizzato a soddisfare globalmente la contestuale esigenza del soggetto di un bisogno sanitario, di tipo fisiologico, e di un bisogno sociale, di tipo economico e/o relazionale.
Sulla base di questa premessa le prestazioni sociosanitarie sono individuate quali la risposta ad un bisogno, secondo la natura integrata dello stesso, la complessità e l’intensità dell’intervento assistenziale, nonché la sua durata.
Le singole prestazioni riconducibili alla tripartizione effettuata nell’art. 3, sono state individuate (in una tabella allegata al provvedimento) secondo una logica di raggruppamento per aree: materno infantile; disabili; anziani e persone non autosufficienti con patologie cronico-degenerative, dipendenza da droga alcool e farmaci; patologie psichiatriche; patologie per infezioni da HIV; pazienti terminali.
Alle Regioni sono affidati, in relazione alle prestazioni corrispondenti alle aree, compiti di individuazione degli obiettivi, delle funzioni, dei criteri di erogazione delle prestazioni sociosanitarie, compresi i criteri finanziamento.
L’assetto così delineatosi ha visto un ulteriore mutamento (a meno di un anno dall’entrata in vigore dell’Atto di indirizzo) con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001.
La riforma costituzionale ha attribuito le competenze nelle materie dell’assistenza sociale e della sanità: il nuovo art. 117 della Costituzione ha attribuito la prima alla competenza esclusiva della Regione e la seconda alla competenza concorrente tra Stato e Regioni. Alla legislazione esclusiva dello Stato è inoltre attribuita la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art 117, comma 2, sub m); così come viene costituzionalizzato il potere sostitutivo del Governo (peraltro già assunto dalla riforma ter, per l’inadempienza regionale della programmazione sanitaria), “quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali” (art. 120, comma 2).
In tale contesto alla fine del 2001 è stato adottato il DPCM 29.11.2001 con il quale il Governo ha provveduto alla “Definizione dei livelli essenziali di assistenza” (su tale argomenti vd. oltre al par. 4).
Il provvedimento regolamenta l’integrazione socio sanitaria in una specifica parte (allegato 1C), che riprende quasi integralmente l’Atto di indirizzo del febbraio 2001 . La novità di rilevante portata è rappresentata dalla configurazione di livelli essenziali delle prestazioni da garantirsi sul territorio dello stato in modo uniforme delle prestazioni indicate.
L’integrazione è delineata dalla differenziazione delle funzioni a livello ambulatoriale – domiciliare, diurno e residenziale, nell’ambito delle quali sono individuate tutte le aree.
Quindi sono indicate le specifiche prestazioni ed è esplicitata per ciascuna di queste l’attribuzione delle competenze in tema di risorse e le conseguenze circa la ripartizione degli oneri economici, secondo le seguenti modalità: funzioni-intervento a totale carico del servizio sanitario, funzioni-intervento a totale carico del destinatario della prestazione o del Comune, funzioni-intervento con ripartizione dei costi tra SSN ed Ente Locale. Il criterio alla base di questa ripartizione è quello della prevalenza del bisogno; laddove l’attività sanitaria sia considerata finalizzata ad una risposta di carattere prevalente si configurano le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, laddove sia con prevalenza sociale le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria. Al fine di mantenere la stessa prospettiva di indagine è utile considerare gli interventi specifici di integrazione sociosanitaria, anche dal punto di vista dell’allocazione delle risorse.
Significativamente per le prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria è garantita la competenza piena da parte delle aziende sanitarie, con oneri carico del Fondo sanitario regionale.
Il DPCM del novembre 2001 deve essere letto non solo quale disciplina della competenza di presa in carico dei costi, ma anche come una precisa risposta ai bisogni dell’anziano, del disabile, del malato terminale, e comunque di ogni altra situazione di non autosufficienza e di non autonomia, finalizzata alla creazione di percorsi integrati e strutturata sul diritto alla tutela della salute e sul diritto all’assistenza. In questa prospettiva tali diritti alla tutela della salute e all’assistenza, esigono una legislazione capace di creare i presupposti, per cui, strutture, servizi, presidi e professioni sociosanitarie in queste aree, possano promuovere una risposta adeguata alla persona nel suo bisogno più complesso, sul presupposto della inscindibilità delle prestazioni e delle funzioni (al di là della parametrazione sanitaria e/o socioassistenziale).
Da qui la necessità di valutare con attenzione tutta la normativa regionale in materia, soprattutto per evitare una deriva o “prestazionistica” o “tariffaria”; i LEA senza un corretto quadro di programmazione rischiano infatti di diventare solo un elenco di prestazioni con esplicitate le competenze dei relativi oneri economici.
Il recepimento, come si vedrà, delle prestazioni del DPCM del febbraio 2001, quasi interamente nell’atto di definizione dei livelli essenziali, necessita una breve analisi, senza pretesa di esaustività, del concetto di LEA, in funzione precipua dell’integrazione.
Il concetto di livello essenziale delle prestazioni, prima ancora che essere richiamato in Costituzione, è stato per la prima volta introdotto da legge ordinaria, ossia dal D. Lgs. 502 del 1992 e succ. mod. in ambito sanitario, e dalla 328 del 2000 in relazione ai servizi sociali. In entrambi i casi il legislatore ha rimandato a successivi atti la definizione dei LEA (sanità) e dei LIVEAS (assistenza). Pur in assenza di una definizione precisa in entrambi i casi per livelli essenziali si è inteso l’insieme delle prestazioni da garantire a tutti i cittadini dal relativo sistema (sanitario, sociale), secondo il principio dell’universalismo selettivo.
Così definito in sede di normazione ordinaria, tale concetto è stato poi fatto proprio dalla Costituzione, che con l’art. 117, comma 2, lett. m) ha riservato allo Stato, tra le materie di sua esclusiva competenza legislativa, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Molteplici sono stati i tentativi di definire il concetto di livelli essenziali, in particolare mettendo in luce la dimensione di diritto soggettivo in capo ai destinatari delle prestazioni oggetto dei livelli. Non si ripercorre in questa sede l’ampio e interessante dibattito che storicamente ha accompagnato l’evoluzione dei diritti sociali, intesi spesso come condizionati e alla stregua di interessi, fino allo sdoganamento di alcuni, che li ha fatto assurgere a diritti soggettivi.
Certamente la necessità di difendere dalla discrezionalità regionale determinati diritti, in quanto riconosciuti e soggettivi, ha portato all’assegnazione esclusiva allo Stato del potere di individuarli; autorevolmente è stato detto che l’implicito presupposto di questa scelta, evidentemente è il collegamento tra livelli di godimento dei diritti, eguaglianza e cittadinanza, nel senso che la diminuzione della protezione di alcuni diritti oltre una certa soglia è interpretata come rottura del legame sociale che da vita alla cittadinanza.
In particolare anche la giurisprudenza costituzionale, più volte imbattutasi sulla tematica livelli essenziali, ha affermato che la competenza dello Stato, ex art. 117 Costituzione, alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di un’adeguata uniformità al trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti (…).
Il contenuto dei livelli essenziali va quindi a costituire quell’insieme di diritti e di libertà ai quali corrispondono relative posizione giuridiche, contribuendo alla costruzione di un’architettura delle garanzie costituzionali, che sia salvaguardata da un livello inderogabile di tutela; tutela pertanto che l’ordinamento ha costruito anche per l’ambito dell’integrazione, come diritto ad un insieme di prestazioni che si fanno carico di una risposta complessa ad un bisogno umano articolato nelle sue dimensioni della salute e sociale.
Attualmente la declinazione dei LEA, più che in tema di individuazione dei servizi residenziali e semiresidenziali, a favore di persone disabili, trova un elemento critico nella ripartizione delle competenze di finanziamento che riguardano la componente sociale e quella sanitaria.
In relazione alla c.d. “quota sanitaria” si assiste ad una diversa quantificazione sulla base delle diverse normative regionali, le quali hanno introdotto criteri per determinare la quota di concorrenza del Fondo sanitario regionale.
Per quanto concerne la “quota sociale” permane la storica problematica della reale titolarità dell’Ente Locale ad intervenire rispetto alla posizione dell’utente.
Si affronta ora questa seconda questione, attraverso una lettura dell’evoluzione che in questi ultimi anni, la giurisprudenza ha dato della compartecipazione degli Enti Locali alla spesa sociale e sociosanitaria.
Sulle novità e sui cambiamenti introdotti dalla riforma del Titolo V della Costituzione, intervenuta con la l. Cost. n. 3 del 2001, si rimanda a quanto sopra evidenziato, sottolineando però come a seguito di tale riforma, la materia dei servizi sociali venga ricondotta nell’ambito delle materie di legislazione esclusiva regionale. Per definire la nozione di “servizi sociali”, è opportuno fare riferimento alla legge n. 328/2000, la quale, all’art. 1, comma 1, afferma che “la Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti della cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli artt. 2,3 e 38 della Costituzione”.
Tale definizione si rende necessaria poiché la normativa di riferimento principale in materia di valutazione della capacità economica degli utenti di servizi socio-sanitari integrati, il d.lgs. n. 109 del 1998, così come successivamente modificato dal d.lgs. n. 130 del 2000, all’art. 1, comma 1, specifica che le disposizioni in esso contenute, si applicano “alle prestazioni o servizi sociali e assistenziali, con esclusione della integrazione al minimo, della maggiorazione sociale delle pensioni, dell’assegno e della pensione sociale e di ogni altra prestazione previdenziale, nonché della pensione e assegno di invalidità civile e delle indennità di accompagnamento e assimilate”.
La portata di questo provvedimento si ritrova laddove all’art. 2, comma 1, viene prevista l’introduzione, per l’erogazione di prestazioni sociali agevolate, di un indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) come criterio di valutazione della situazione economica del richiedente, che va determinata con riferimento alle informazioni relative al nucleo familiare cui il richiedente appartiene. Per quanto attiene al nucleo familiare, il legislatore precisa che ne fanno parte i componenti della famiglia anagrafica. Si tratta invero, ai sensi del d.P.R. n. 223/1989, di “un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune”. Per poter definire con maggior chiarezza la composizione del nucleo famigliare, il d.lgs. 130/2000 ha introdotto alcune specificazioni, precisando che ciascun soggetto può appartenere ad un solo nucleo famigliare e che i soggetti a carico ai fini dell’imposta sul reddito fanno parte del nucleo famigliare della persona di cui sono a carico.
La legge, rispetto all’impianto così come sopra descritto, introduce una deroga, di fondamentale importanza per quanto qui interessa, al principio generale appena visto. L’art. 3, comma 2 ter, introdotto con la modifica del 2000, prevede l’emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che stabilisca i limiti di applicabilità della normativa in materia di ISEE per due specifiche tipologie di soggetti, che fruiscano di prestazioni sociali agevolate erogate a domicilio o in strutture residenziali, nell’ambito di percorsi integrati di natura sociosanitaria. Le tipologie di soggetti a cui ci si riferisce sono rappresentate dalle persone con handicap permanente grave, accertato ai sensi della l. 104/1992 e dai soggetti ultrasessantacinquenni non autosufficienti fisici o psichici, accertati dalle Asl.
Tale decreto, ad oggi, non è mai stato emanato, ma la mancata adozione non può paralizzare l’operatività della norma (Cons. Stato n. 551/2011).
La finalità della norma, però, è sottesa all’apposizione di un ulteriore e fondamentale vincolo, laddove dispone che il decreto in questione è adottato “al fine di favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza e di evidenziare la situazione economica del solo assistito, anche in relazione alle modalità di contribuzione al costo della prestazione”. L’obiettivo della deroga, pertanto, è di considerare, per alcuni soggetti in condizioni particolari, unicamente la loro situazione economica, escludendo quella degli altri membri della famiglia anagrafica cui essi appartengono.
Tuttavia, nonostante la presenza di tale previsione normativa, si è riscontrato e tutt’oggi si rileva la prassi di numerosi Enti Locali, attraverso l’adozione dei regolamenti comunali, di sancire criteri diversi rispetto a quelli stabiliti dal d.lgs. 109/1998, comprendendo non solo gli altri membri della famiglia anagrafica, ma addirittura travalicandone i confini, arrivando a comprendere soggetti estranei ad essa, considerati nel calcolo della situazione economica e chiamati, pertanto, dai Comuni a compartecipare in misura rilevante al costo delle prestazioni erogate, fondando tale prassi sull’asserita applicabilità della normativa del Codice Civile in materia di obbligazioni alimentari (artt. 433 e 438 c.c.).
Tale prassi viene adottata dai Comuni, illegittimamente, come hanno stabilito recenti sentenze di T.A.R. e del Consiglio di Stato, per sopperire alla carenza di tutela dei diritti sociali, da un punto di vista della certezza del finanziamento. Infatti, per quanto riguarda la c.d. “quota sanitaria” vi è una certezza di risorse: ogni Regione eroga, mediante i fondi del FSR, la quota di propria spettanza stabilita a livello nazionale dai LEA, in quanto il diritto alla tutela della salute è un diritto fondamentale della persona (seppur finanziariamente condizionato, ovvero vengono garantite le cure nei limiti della risorse disponibili). Relativamente a questa quota quindi si può affermare come vi sia quantomeno una certezza di finanziamento, anche se probabilmente andrebbe approfondito il tema dei criteri in base ai quali le Regioni dimostrano di ottemperare al proprio dovere di contribuzione alla spesa sulla base non del singolo assistito o della singola unità di offerta, ma sulla media dell’intera rete regionale. Ci si domanda se quindi, essendo il diritto alla tutela della salute un diritto esigibile, costituzionalmente garantito, direttamente azionabile, sia legittima la prassi adottata dalle Regioni, anche ove ciò significhi che in realtà sono gli utenti che devono contribuire anche per la parte spettante alla Regione.
D’altra parte, tornando alla dimensione della quota di spesa sociale, il calcolo dell’ISEE sulla base della situazione economica del solo assistito rileva sia come criterio per l’accesso alla fruizione del servizio sia per le modalità di contribuzione al costo della prestazione. Sotto tale secondo profilo, è doveroso ricordare il d.P.C.M. 29 novembre 2001.
È qui delineato il motivo del contendere, che ha dato luogo a numerose doglianze da parte degli utenti, che per veder tutelati i propri diritti hanno adito l’autorità giudiziaria. Infatti, il d.P.C.M. sopra richiamato, all’allegato 1C, ha stabilito che, con riferimento all’area della disabilità ed alla tutela del disabile attraverso prestazioni riabilitative, educative e di socializzazione, di facilitazione dell’inserimento scolastico e lavorativo, in regime domiciliare, semi-residenziale e residenziale, nella fase di lungoassistenza, il Ssn si fa carico del 70% del costo delle prestazioni, mentre il restante 30% è a carico dei Comuni, fatta salva la compartecipazione, da parte del destinatario della prestazione, prevista dalla disciplina regionale e comunale.
Da tale disciplina, così come ha avuto modo di sottolineare il collegio del T.A.R. Milano nella sentenza n. 291 del 2008, si evince, e viene confermato, il principio in base al quale il carico delle spese per l’utente, in base al proprio reddito calcolato con l’indicatore ISEE, ha la funzione di mera compartecipazione alle spese, e non di quasi integrale pagamento del costo del servizio. Se così non fosse, vi sarebbe, e purtroppo vi è, un palese contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento che informano il Servizio Sanitario Nazionale ed il sistema dell’assistenza sociale, anche in base agli artt. 32 e 38 della Costituzione, in quanto si porrebbe a carico della famiglia anagrafica l’obbligo di mantenimento di persone affette da handicap grave, quindi non autosufficienti, ed al mantenimento dei quali, se il calcolo dell’ISEE lo rilevi, il Comune di riferimento deve provvedere in via diretta in quanto si trovano in uno stato di bisogno e, conseguentemente, non autonomi né in grado di provvedere a sé stessi. Ove e per quanto sia possibile, l’utente contribuirà nei limiti dei redditi propri.
Il Consiglio di Stato, in proposito, nella sentenza n. 1607/2011, ha affermato che “sia il legislatore regionale sia i Regolamenti comunali devono attenersi ad un principio idoneo a costituire uno dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, attendendo proprio ad una facilitazione all’accesso ai servizi sociali per le persone più bisognose di assistenza”. Concetto questo molto importante in una materia come quella dei servizi sociali che attende da ormai oltre dieci anni l’emanazione dei propri livelli essenziali (i sopra richiamati LIVEAS), che farebbero assurgere a diritti direttamente azionabili come quello alla tutela della salute, i diritti sociali.
Sul punto, recente ma ormai consolidata e conforme ai principi suesposti è la giurisprudenza che, secondo il comune orientamento, ha affermato come la norma contenuta all’art. 3, comma 2 ter, del d.lgs. n. 109/1998, può essere applicata direttamente anche a prescindere dalla mancata attuazione del d.P.C.M. in essa previsto, poiché si tratta di prescrizioni immediatamente precettive, che non necessitano di disposizioni attuative di dettaglio. In particolare, si richiamano le sentenze pronunciate dal TAR Lombardia Milano n. 303/2008 e n. 581/2009, l’ordinanza n. 582/2009, che vanno ad aggiungersi alla sentenza del TAR Sicilia Catania n. 42/2007 e TAR Marche Ancona n. 521/2007, le quali hanno affermato i seguenti principi:
- Spetta al Servizio sanitario nazionale ed al sistema dell’assistenza sociale, e non ai parenti, farsi carico dei bisogni socio-sanitari delle persone con disabilità. Viene ribadito così il cosiddetto principio della presa in carico pubblica degli interventi verso la persona con grave disabilità.
- L’ente locale deve esplicitare i criteri con cui determina la compartecipazione al costo del servizio. Tali criteri devono essere conformi alla normativa nazionale ISEE, che prevede tra l’altro il principio del riferimento alla sola situazione economica del singolo utente.
- Gli enti gestori e gli enti locali non possono chiedere contributi direttamente ai familiari degli utenti. Obbligato al pagamento del contributo può essere considerato solo il beneficiario del servizio. Il riferimento ai cosiddetti “soggetti civilmente obbligati” utilizzato da molti enti locali non ha alcun fondamento giuridico.
- L’ente locale nel valutare la situazione economica dell’utente non può prendere in considerazione le provvidenze economiche assistenziali (indennità di accompagnamento, indennità di frequenza, assegno di assistenza, pensione di inabilità).
Gli stessi principi sono stati applicati fino ad oggi, in via analogica, anche all’ambito degli anziani ultrasessantacinquenni non autosufficienti. Tuttavia, il Consiglio di Stato, ha pronunciato la sentenza n. 1607 del 15 febbraio 2011 attraverso la quale è arrivata la conferma giurisprudenziale di quella che fino ad allora è stata la prassi.
Attraverso le considerazioni sopra esposte, partendo dall’evoluzione della legislazione in materia sociosanitaria, arrivando alla situazione normativa vigente, si è cercato, da un lato di mettere in evidenza alcuni elementi di criticità in relazione al problema della disabilità ad oggi esistenti, dall’altro di sottolineare come in questo particolare ambito una risposta integrata di tipo sociale e sanitario ai bisogni, sia di fondamentale importanza nel sistema di welfare verso il quale ci si sta orientando, oltre che una necessità fortemente avvertita dalle persone che vivono quotidianamente la malattia e la fragilità.
Alla luce di quanto esposto, leggere la disciplina ISEE nel contesto dell’integrazione sociosanitaria sia nei termini della esigibilità del diritto per la persona disabile, sia della compiutezza di organizzazione (strutture, servizi, professioni) capace di prese in carico individuali e specifiche, non può che evidenziare l’attuale insufficienza in termini di tutela del disabile.
L’insufficienza di tutela viene evidenziata, come visto, da diversi fattori di criticità presenti nell’attuale disciplina portati alla luce dalla recente giurisprudenza amministrativa, che si ripercuotono direttamente sulla vita del disabile e della sua famiglia.
In tale ottica è pertanto auspicabile una revisione dell’apparato normativo al fine di non gravare eccessivamente situazioni di vita complesse e gravi.
La prospettiva in tal senso vede oggi due elementi di cui tenere conto:
- La riduzione di risorse economiche in capo agli Enti Locali (basti pensare alla riduzione del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali);
- La regolamentazione a livello regionale di questa materia che sta vedendo interventi limitativi della volontà, soprattutto degli Enti Locali, di presa in carico certa dell’onere del costo sociale.
Il cambiamento che si attende riguarda anche una scelta in sede di politica sociale, rispetto a quale modello di Welfare si voglia pensare per il futuro, che sappia delineare un sistema dove la famiglia del disabile non sia chiamata a sostenere costi di elevata natura, laddove la gravità della situazione richieda interventi integrati, ossia ci si trovi nell’ambito dell’integrazione sociosanitaria.
Queste scelte devono necessariamente partire dal presupposto di una riflessione sulla reale natura che si vuole assegnare ai diritti sociali nel contesto di definizione dei LEA (si vedano in proposito i primi paragrafi).
In tale prospettiva si colloca il richiamo espresso del Consiglio di Stato, nella sopracitata sentenza, ai principi affermati nella Convenzione di New York sui “diritti delle persone disabili” ratificata in Italia con Legge 3 marzo 2009.
“La valorizzazione della dignità intrinseca, dell’autonomia individuale e dell’indipendenza della persona disabile” non possono che rappresentare principi che impongono una garanzia di diritti accompagnata da una certezza delle risorse tali da delineare una politica sociale realmente integrata e inclusiva.
Nell’attesa che anche l’area assistenziale possa vedere riconosciuti, per la disabilità ma non solo, i livelli essenziali (LIVEAS) è indubbio che un tale postulato porti ad una duplice conseguenza: una linea non più equivoca degli Enti Locali nei confronti della disabilità grave sotto il profilo della contribuzione economica, un invito coerente e motivato al legislatore perché proceda ad attuare i principi internazionali e costituzionali di rispetto della dignità umana e di solidarietà.
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